Quanto inquina ciò che indossiamo

2,5 trilioni di dollari: il valore annuo complessivo del settore della moda. A pensarci bene non è così impressionante, se si considera che ogni persona nel mondo (ad oggi siamo circa 7 miliardi) ha necessità di vestirsi. Esistono fortunatamente organizzazioni umanitarie che forniscono vestiti anche a chi non può permetterseli, perciò si può affermare che la filiera della moda coinvolge proprio tutti. Non è convincente? Esiste un’altra motivazione che trasforma la moda da necessità a problema, e questa volta riguarda tutti gli esseri viventi, dal primo all’ultimo. L’intera filiera della moda, dalla produzione allo smaltimento, rilascia nell’atmosfera più gas serra rispetto all’intero traffico aereo e navale del mondo. Questo sì che è sconvolgente.

Le ragioni: moda veloce

Nel 1801 venne inventato il telaio Jacquard, un macchinario che permetteva di applicare disegni complessi ai capi d’abbigliamento in modo automatizzato. In tal modo un solo tessitore poteva produrre diversi modelli di vestiti in grandi quantità. Il fattore da evidenziare è che si producevano capi in pochissimo tempo: da quel momento prese vita il fenomeno della moda veloce. In cosa consiste? Produrre enormi quantitativi di merce a basso costo.

Il fenomeno si è poi inserito alla perfezione nei nuovi meccanismi di mercato portati dalle rivoluzioni industriali e successivamente dal consumismo di massa, evolvendosi fino a diventare un grosso problema per l’ambiente.

La nascita dell’OMC (Organizzazione Mondiale del Commercio) nel 1995 ha definitivamente legittimato questo tipo di produzione “incontrollata”, in quanto si è passati a un commercio globale con tariffe irrisorie di import-export. In sostanza le aziende potevano trasferire le proprie produzioni nei Paesi col più basso costo di manodopera, esportando successivamente in tutto il mondo a un costo pressoché nullo. Domanda spontanea: quanto inquinamento si produce per trasportare la merce? Tanto, ma non è il dato più preoccupante.

I dati

La maggior parte degli indumenti presenti sul mercato sono fatti di materiali sintetici. Il più utilizzato è il poliestere, un composto della plastica non biodegradabile. Ogni lavaggio in lavatrice comporta la liberazione all’interno dei tubi di scarico di minuscole quantità di tali materiali, che andranno a raggiungere il mare (comportando situazioni come questa).

“Io non acquisto materiali sintetici, solo cotone.”

Il 2,5% delle terre arabili nel mondo è utilizzato per coltivare cotone. Qual è il problema?

Circa il 20% del consumo globale di acqua (79 trilioni di litri) serve per le coltivazioni di cotone.Per rendere l’idea: un paio di jeans richiedono più di 2500 litri d’acqua per essere prodotti (qui puoi approfondire l’importanza dell’acqua per ogni individuo).

Inoltre il 24% degli insetticidi e l’11% di pesticidi liberati nell’ambiente provengono da tali coltivazioni.

L’impermeabile che indossiamo oggi? Per svolgere la funzione per cui lo abbiamo acquistato (non far filtrare l’acqua) ha bisogno di sostanze fluorochimiche, ottenute utilizzando prodotti tossici.

Gli sprechi

Bene, c’è molto da lavorare sulla produzione, come vanno invece le cose dal punto di vista “smaltimento”?

Secondo l’ONU l’85% dei vestiti prodotti va a finire in discarica, l’1% viene invece riciclato.

Non è finita qui: qual è il destino della merce invenduta?

Intanto c’è da dire che le aziende producono capi d’abbigliamento in base a delle previsioni basate sui dati di vendita degli anni precedenti. Per diverse ragioni tali previsioni potrebbero rivelarsi errate, perciò si verifica una sovrapproduzione.

In cinque anni un famosissimo marchio di moda britannico ha distrutto (bruciandolo) un quantitativo di prodotti pari a 110 milioni di dollari. La motivazione? Non “svalutare” la propria merce e quindi l’intero marchio abbassando i prezzi. Tali esempi scandalosi, oltre a mandare in fumo materiale che potrebbe essere devoluto in beneficienza, mettono in evidenza un egoismo controproducente: a rimetterci è l’ambiente, dal quale dipende la vita di tutti (incluso chi ha preso questa decisione).

Le vie d’uscita

Al vertice ONU sui cambiamenti climatici tenutosi in Polonia dal 2 al 14 dicembre 2018 è stata stilata una lista di obiettivi da raggiungere nel settore della moda entro il 2030.LaFashion Industry Charter for Climate Action è stata da subito firmata da 40 protagonisti tra marchi, rivenditori, fornitori e un’importante compagnia di trasporti.

Tra i 16 obiettivi principali emergono: la decarbonizzazionenelle fasi di produzione, la scelta di materiali sostenibili e modalità di trasporto a basse emissioni di carbonio, stabilire un dialogo con i clientisensibilizzando i consumatori, la collaborazione con le comunità finanziarie e i responsabili politici per individuare soluzioni e promuovere l’economia circolare.

La promessa fatta dai primi firmatari prevede una diminuzione delle emissioni di gas serra del 30% entro il 2030.

La Miroglio Textile è un esempio virtuoso di cambiamento, nonché pioniera di un nuovo modo di fare moda. L’azienda tessile ha investito nelle nuove tecnologie della stampa digitale, facendo registrare una diminuzione del 50% nel consumo di acqua e inchiostro per produrre vestiti. In questo modo la ditta con sede nel cuneese ha ottenuto la sigla Detox di Greenpeace.

Positive sono anche le ricerche portate avanti da Bolt Threadsper una seta artificiale più elastica e resistente all’acqua. Per produrre capi d’abbigliamento si utilizzerebbero zucchero, acqua e lievito geneticamente modificato.

La Qmilk produce invece fibre tessili da proteine del latte, e l'italianaOrange Fiber fa tessili dagli scarti degli agrumi.

Esperienze di grande valore che rappresentano l’inizio di una vera e propria rivoluzione di un settore che può davvero cambiare le sorti del pianeta.