Se pensavi che il camaleonte fosse l’unico in grado di cambiare colore e mimetizzarsi con l’ambiente, ti sbagliavi di grosso. Sempre più studi dimostrano infatti che anche i polpi, oltre ad essere alquanto intelligenti, sono capaci di mutare il colore della pelle per sfuggire ai predatori o comunicare con i propri simili. Tale fenomeno si riscontra anche in diverse specie di calamari e seppie.
Sulla pelle di questi cefalopodi sono presenti tre strati di cellule molto particolari. Uno di cellule dette cromatofore ("portatrici di colore"), che contengono pigmenti neri, marroni, rossi e gialli. Sotto lo strato di cellule cromatofore, ci sono le leucofore("portatrici di bianco") – utili a riprodurre, appunto, il colore bianco – e infine le iridofore, che riflettono determinate lunghezze d’onda dello spettro luminoso e generano i colori verde e blu.
Le sacche di pigmenti nelle cromatofore si possono concentrare intorno al nucleo della cellula, dando così colorazioni meno omogenee ma più intense, o distribuirsi per creare una tinta più uniforme. Questi movimenti sono controllati da nervi in comunicazione diretta col sistema nervoso centrale dell’animale. In questo modo i cefalopodi sono in grado di creare combinazioni di colori e pattern quasi infinite.
Se aggiungiamo che seppie, polpi e calamari non vedono i colori, questa loro abilità sembra paradossale. Ma vediamo meglio come funziona la “vista” dei cefalopodi rispetto alla nostra.
La cornea umana è in grado di rifrangere la luce per deviarla verso la retina, sulla quale l’immagine viene messa a fuoco con l’aiuto del cristallino. La retina funziona come una pellicola fotografica: grazie a speciali fotorecettori, i coni, “legge” i colori in essa proiettati, trasformandoli in impulsi nervosi che arrivano al cervello. Questi coni sono di tre tipi: uno per il rosso, uno per il verde e uno per il blu.
I cefalopodi, però, sono muniti di fotorecettori di un solo tipoe la loro cornea non è molto efficace nel processo di rifrazione della luce. La quantità di luce che entra nell’occhio - grande e spesso irregolare - di un polpo è dunque elevata, ma l’immagine non viene messa a fuoco, lasciando così che le diverse lunghezze d’onda della luce visibile (corrispondenti a quelli che per noi sono i colori), prendano direzioni diverse e creino nella retina degli aloni. Saranno proprio questi a essere recepiti dai fotorecettori del polpo e interpretati dal suo cervello. Tramite questo fenomeno, definito Chromatic blurring, l’animale riesce così a immagazzinare tutta una serie di informazioni relative al colore senza vederlo. Queste vengono integrate nel cervello, che a sua volta controllerà l’attività delle cellule cromatofore.
Ma vari studi hanno dimostrato che la pelle è in grado di controllare il proprio aspetto anche indipendentemente dal sistema nervoso centrale: il polpo può percepire la luce tramite delle proteine fotosensibili chiamate opsine. Queste sono collocate sulla pelle dell’animale e lo aiutano a regolare a scopo difensivo, predatorio o comunicativo il proprio colore.
Nel caso in cui il polpo voglia cambiare colore per comunicare con un proprio simile, sceglierà uno sfondo omogeneo sul quale risaltare e farsi notare dal suo “interlocutore”. Qualora, invece, dovesse procacciarsi del cibo, farà in modo di mimetizzarsi col fondale, rendendosi il più simile possibile ad alghe o rocce. In questo caso verranno in suo aiuto le cosiddette papille, proiezioni epidermiche che servono a dar forma a protuberanze simili a quelle dei coralli o degli scogli.