Negli ultimi anni è diventata protagonista nei menù di pizzerie, forni e locali specializzati: la pinsa romana è un’alternativa sempre più apprezzata alla pizza tradizionale, ma la sua storia affonda le radici molto più lontano. Il nome “pinsa” deriva dal latino pinsere, che significa “allungare, schiacciare”, e descrive bene sia la forma ovale che l’azione con cui si stende l’impasto.
La pinsa non è però una riscoperta filologica della cucina romana antica, quanto piuttosto una ricetta contemporanea ispirata a impasti della tradizione contadina del Lazio. A rilanciarla negli anni Duemila è stato un panificatore romano, Corrado Di Marco, che ha codificato una formula moderna pensata per essere leggera, altamente digeribile e facile da personalizzare.
L’impasto è ciò che la rende unica: si tratta di una miscela di farine diverse – solitamente frumento, riso e soia – a cui si aggiunge una quantità elevata di acqua (fino all’80%) e una lunga lievitazione, che può arrivare a 72 ore. Il risultato è una base croccante fuori e morbida dentro, con un gusto delicato e una consistenza ariosa che resta leggera anche con condimenti ricchi.
La cottura avviene tradizionalmente in forno elettrico o a pietra, e la pinsa può essere condita sia prima sia dopo la cottura, secondo i gusti. Si presta a moltissime varianti: dai sapori classici come pomodoro e mozzarella, fino a combinazioni più gourmet con formaggi freschi, verdure di stagione, carne o pesce.