Sono il prodotto ortofrutticolo più scambiato al mondo e percorrono anche 10.000 km per arrivare sulle nostre tavole: come fanno le banane ad arrivare perfettamente mature nei nostri supermercati? Perché sono praticamente uguali in tutti i negozi? È vero che non sono più quelle di una volta?
Ecco qualche risposta e un’interessante considerazione sul loro processo produttivo.
A rendere la banana più adatta al commercio su lunga distanza rispetto ad altri frutti è sicuramente la sua anatomia: la buccia spessa protegge la polpa dagli urti e dall’attacco di insetti e parassiti, e non essendo edibile non richiede particolari accorgimenti.
In più si tratta di un frutto climaterico, come la mela, il kiwi, il melone e l’avocado: la sua maturazione continua anche dopo che è stata raccolta e può essere ritardata o accelerata controllando la temperatura e la quantità di etilene a cui viene esposta.
Questo permette ai coltivatori di giocare d’anticipo, raccogliendo i caschi quando sono completamente formati, ma ancora verdi. A raccolta avvenuta sarà importante non interrompere la catena del freddo: le banane sono conservate a 13°C per tutto il viaggio, che può durare anche più di un mese. Una volta giunte a destinazione, il loro metabolismo viene riattivato in locali riscaldati e in presenza di etilene, gas che viene poi prodotto in quantità crescente dai frutti stessi via via che maturano.
Ovviamente non è sempre stato così: in assenza di impianti refrigeranti e navi a motore, era difficile prevedere con certezza lo stato di maturazione che i frutti avrebbero raggiunto prima dell’arrivo. Le correnti e i venti sfavorevoli potevano rallentare il viaggio, le temperature esterne potevano variare. L’introduzione dei motori a vapore rivoluzionò completamente il commercio, facendo nascere nuove rotte per mare e per terra; ecco che, già all’inizio del Novecento, le banane venivano esportate e riscuotevano successo in tutto il mondo. La varietà più coltivata e commerciata era la Big Mike o Gros Michel, caratterizzata da una buccia piuttosto spessa e una polpa molto dolce.
Con la rapida crescita della domanda, crebbe anche l’offerta: se prima le banane venivano esportate principalmente da Cuba e dall’Ecuador, ora la produzione si espande al resto dei Caraibi, all’America Centrale e al Sud America. Anche nel Sud-Est Asiatico e nelle aree tropicali e sub-tropicali di Africa e Australia iniziano a sorgere sempre più monocolture.
Ma un grosso imprevisto era dietro l’angolo: tra gli anni Trenta e gli anni Cinquanta le piantagioni di Big Mike furono devastate dalla Malattia di Panama, causata da un fungo, il fusarium oxysporum, che rendeva improduttivi i banani.
Ad esserne immune era la Cavendish, cultivar selezionata intorno al 1830 dai botanici inglesi e nominata in onore di William Cavendish, Duca del Devonshire; dava frutti un po’ meno dolci e dalla buccia meno spessa, ma la sua resistenza al fusarium la rese un valido sostituto. È la varietà che troviamo ancora oggi in tutti i supermercati del mondo… Ma forse non per molto ancora.Purtroppo anche i funghi si evolvono: un nuovo ceppo di fusarium, detto Tr4, si sta diffondendo a una velocità allarmante tra le piantagioni di Cavendish e al momento non sembra esserci una soluzione all’orizzonte.
Questa storia ci offre uno spunto per una considerazione che botanici e agronomi hanno fatto da tempo: le monocolture sono modelli estremamente fragili.
Le piantagioni sono composte da banani “gemelli”, riprodotti per talea e tutti con lo stesso patrimonio genetico, senza che avvenga mai un rimescolamento dei geni (come avviene normalmente con la riproduzione sessuata). Questo permette ai coltivatori di ottenere frutti senza semi (i semi delle banane selvatiche sono molto grossi e duri) e sempre simili tra loro per forma e proprietà organolettiche, ma rende anche la coltivazione molto più vulnerabile. Per un virus o un parassita non c’è terreno più fertile di un raggruppamento di individui tutti uguali, con gli stessi punti deboli.
Un esempio tutto italiano di questa fragilità e delle sue tragiche conseguenze è quello della Xylella nel Salento, che da anni avanza e distrugge gli olivi secolari sui quali si basa gran parte dell’economia della regione.
Viene quindi da chiedersi come sarà l’agricoltura del futuro: soppianteremo la monocoltura a favore di un altro modello o troveremo nuovi strumenti per farla funzionare?