Antichi testi latini e greci cercavano di insegnare a non parlare con esitazioni, e anche nell’era moderna si cerca spesso di bandire le parole come “ehm”, “eh”, “tipo”, “cioè”, ovvero i termini che usiamo per riempire le pause quando esitiamo tra una parola e l’altra.
Persino il rinomato linguista Noam Chomsky ha liquidato queste espressioni come errori, irrilevanti nel linguaggio. Storicamente, queste componenti del parlato sono state incasellate come “disfluenze”: riempitivi che distraggono dal discorso utile.
Tuttavia queste espressioni sono tuttora comuni, si presentano circa due o tre volte al minuto nel parlato naturale: diverse versioni di questi composti linguistici si possono trovare in quasi ogni lingua, inclusa la lingua dei segni.
Una parola scritta può avere diverse definizioni e possiamo determinare il suo significato dal contesto. Ma nel discorso parlato una parola può avere ulteriori strati di significato: il tono di voce, la relazione tra i dialoganti e le aspettative sul corso della conversazione possono conferire delle informazioni vitali anche a quelle parole che sembrano riempitive.
Ecco dove entrano in gioco i “fenomeni di esitazione” come “ehm” ed “eh” o, in inglese, “um” e “uh”, “tuota” e “öö” in finlandese, e così via. I linguisti le chiamano “pause piene” e, all’apparenza insignificanti, possono essere molto importanti nel parlato.
Per esempio, una pausa silenziosa può essere interpretata come la fine del turno di chi parla, che cede la parola all’altro, mentre una pausa piena può indicare che non si è finito di parlare. Queste espressioni dunque possono far prendere tempo per riprendere il filo del discorso o cercare le parole giuste. Le pause piene possono beneficiare anche l’ascoltatore, ad esempio lasciando intuire che sta per essere pronunciata una parola importante. Le ricerche mostrano che è più probabile che la gente si ricordi di un termine se questo è anticipato da un fenomeno di esitazione.
I fenomeni di esitazione non sono l’unica parte del discorso che acquisisce significato a seconda del dialogo: espressioni come “praticamente” o “diciamo” servono come “segnali discorsivi”. Queste espressioni abbandonano il loro significato originario per segnalare informazioni sul contesto in cui appaiono, dirigendo il flusso della conversazione.
Le ricerche indicano che gli oratori più coscienziosi si avvalgono spesso di queste espressioni per assicurarsi che tutti siano ascoltati e capiti. Per esempio, iniziare una frase con “guarda” può aiutare a capire l’intenzione di chi parla e aiutare a convogliare l’accordo dell’ascoltatore; “cioè” significa che si sta per argomentare e il famigerato “tipo” può svolgere diverse funzioni, come stabilire una connessione tra pensieri molto distanti.
Questi segnali possono fornire una vista in tempo reale del processo mentale di chi parla e aiutare gli ascoltatori a seguire e interpretare ciò che si sta cercando di dire.
È stato dimostrato inoltre che i fenomeni di esitazione e i segnali discorsivi sono di grande aiuto per imparare la lingua da piccoli e per imparare una nuova lingua quando si è più grandi.